Stefano
Castelnuovo - Il
web e lo sviluppo dell’Internet of Things portano ad una pluralità di identità
digitali, ormai fuori dal controllo dell’utente. “Oggi non siamo più chi
diciamo di essere, ma siamo cosa Google dice di noi!”: è questa la “sentenza”
pronunciata da Stefano Rodotà, intervenuto al convegno “Identità
ed eredità digitale” organizzato dall’Università Bocconi di Milano. Il
famoso giurista, politico e accademico italiano ha infatti sottolineato come la
questione dell’identità sia oggi una tematica di grande attualità sia da un
punto di vista legale che per quanto riguarda la privacy. “Il
confine tra identità reale e digitale è diventato molto labile poiché ormai la
frontiera tra fisicità e digitalità è stata troppe volte superata. – ha
spiegato Rodotà – E’ errato pertanto rimanere prigionieri di queste
distinzioni: con l’avvento dell’internet 2.0 l’identità è unica.”
Un
concetto di per sé molto semplice quello esposto dal giurista, ma che nella
pratica non lo è per niente. Questo perché un’identità che è sempre più digital
porta con sé diverse problematiche, questioni ormai sulla bocca di tutti e in
alcuni casi passate pure per le aule dei tribunali. L’esempio più lampante è
quello del “diritto
all’oblio” discusso dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea: i
cittadini europei hanno il diritto di chiedere ai motori di ricerca di
eliminare dalle loro pagine i link a risultati “inadeguati, irrilevanti o non
più rilevanti, o eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati
pubblicati”. Questo significa la possibilità di far scomparire frammenti di sé
da internet, eliminare parti della propria identità digitale a favore della
privacy. L’essere quindi “quello che Google dice che noi siamo” non è poi così
scontato. L’identità digitale risulta pertanto parziale, ma soprattutto sempre
più frammentata: il suo controllo non esiste più.
“Oggi
con l’avvento dei Big
Data, le società sono in grado di prelevare, conservare e analizzare
numerose informazioni che riguardano il nostro comportamento su internet e non
solo. – ha spiegato Rodotà – Ognuna di queste organizzazioni possiede una
diversa parte di noi, una nostra possibile identità che varia a seconda di chi
e cosa abbiano raccolto. Le identità online risultano quindi potenzialmente
infinite e alcune non sappiamo neppure di averle: controllarle tutte appare
molto difficile, se non impossibile”.
E in
futuro? La questione sarà ancora più complessa. Questo perché siamo soltanto
all’inizio dell’avvento dell’Internet
of Things: secondo IDC entro il 2020 saranno connessi ad Internet oltre 30
miliardi di dispositivi in tutto il mondo. Tutto ciò significa altri dati su di
noi, come se quelli già a disposizione non bastassero. Il rischio è quello di
“essere conosciuti” meglio dai computer piuttosto che da noi stessi.
Un’affermazione che però non riguarda soltanto il presente - chi siamo oggi -
ma anche riferibile a chi saremo nei prossimi anni: gli strumenti di business
intelligence infatti, sulla base delle informazioni ottenute nel corso del
tempo, possono effettuare previsioni statistiche su quali saranno i nostri
comportamenti in futuro. Un marchio, quello che ci verrà applicato, che ci
accompagnerà e che sarà difficile da perdere, un po’ come avviene nella vita
reale.
Ricapitolando:
essere chi diciamo di essere non è sufficiente, e lo stesso vale per quello che
Google dice noi. Combinare le due cose appare l’unica via possibile, anche se
non sempre si tratta di una soluzione esaustiva. Ritorna pertanto la questione
iniziale: chi siamo veramente? Lo scopriremo mai? Una questione complessa che,
non a caso, costituisce una delle domande che i filosofi continuano a
domandarsi da millenni.
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