04/10/18

Annotazioni sul Terrificante 'Conosci te Stesso'


La speranza mondana è frutto che matura
di rado, e che pertanto divien cenere scura;
è neve nel deserto, che sull’arida
sabbia risplende appena un’ora o due e non dura
(Rubaiyat di Omar Khayyam)

fragmenta - Scendere quaggiù, prendere parte all’esistenza, vuol dire partecipare ad un’esperienza davvero notevole quanto effimera. La consapevolezza di ciò è variamente ostacolata da molteplici incomprensioni e difficoltà, da assuefazioni indotte dall’ingannevole ovvietà che sembra circoscrivere la dimensione finita delle cose e della vita tutta. Occlusi nel corpo, dovremo far di tutto per accorgerci del nostro significato energetico, poiché rimaniamo prevalentemente dimentichi dello splendore che al di qua del limite evidente rifulge. In questo nostro momentaneo apparire sospinto dall’onda del divenire, prima che ogni desiderio torni ad immergersi nella fluttuazione declinante dell’istante, riassorbito dall’inconoscibile abisso da cui tutto è scaturito, dovremmo cercare di comprenderne i motivi illusori che sviano la nostra rotta interiore. In sostanza, scendere nel cuore delle illusioni, significherebbe chiarire maggiormente la comprensione di sé, ma il conoscere se stessi, costituisce anche l’invito a districare la matassa di un paradosso irrisolvibile.

La proverbiale frase gnōthi sautón, costituisce l’enigma maggiore che il dio rivolge all’uomo, un enigma destinato a rimanere irrisolvibile alla sola ragione.Al conoscere se stessi, varrebbe la valorizzazione intuitiva dell’inudibile accordo, dell’armonia profonda, (nascosta) che rilega l’attenzione cosciente al senso della spaventevole, tremenda, meraviglia latente in ogni istante del giorno e della notte. E’ l’enigma che appartiene alla stessa malinconica consapevolezza del dover morire, il cui valore, inevitabilmente avviato sul declino dei tempi e del proprio tempo, consisterebbe nella capacità di saper amalgamare l’amarezza della fine assieme alla luminosa bellezza che la corrente vitale infonde (sebbene in forma intermittente) alla presenza cosciente.
L’irrimediabilità della sofferenza, è una consapevolezza che può divenire il crogiuolo emblematico in cui riversare sapientemente il dolore di ogni possibile lutto, fuso assieme alla determinazione dell’oltre.

La radianza che informa la vita ne preavverte la stessa rovina. Ogni germogliazione avviene sul confine invisibile che separa il rinnovamento dalla catastrofe. A cosa ci esorta la cosiddetta Sapienza Antica? A non rimanere insensibili della disperata bellezza che ogni fioritura dischiude. Il suo profumo equivale all’ineffabile gioia che prelude l’elaborazione di un nettare emblematico. Ogni fioritura rivela una stupefazione sorretta sullo stelo del dolore e nutrita dal terreno della disperazione. Tutti i poemi antichi insegnano proprio questo e niente altro ha davvero significato in questa vita se non la facoltà di poter esprimere una tale dedizione verso il mistero dell’esistenza (vera alchimia).

L’uomo non dovrà smarrirsi tra l’assurdo vuoto che separa l’atomo dall’atomo. L’ordito nascosto che ci rilega a questa vita, riconduce a un tracciato puramente immaginale, coinvolto da ogni possibile visione (orrenda quanto luminosa) rimandata alle infinite lontananze dei molteplici orizzonti allegorici che circoscrivono la nostra ideazione – essa è propriamente spirituale – in quanto (i capolavori delle opere antiche testimoniano) è ciò che è più assurdo a determinare la maggiore forza esprimibile nella creazione materiale. Dire Uomo, innanzitutto, è significare sogno: è la nota immensità in cui s’annega ogni pensiero e ogni identità si confonde.  (Giovanni Ranella)

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