La
speranza mondana è frutto che matura
di rado,
e che pertanto divien cenere scura;
è neve
nel deserto, che sull’arida
sabbia
risplende appena un’ora o due e non dura
(Rubaiyat
di Omar Khayyam)
fragmenta - Scendere
quaggiù, prendere parte all’esistenza, vuol dire partecipare ad un’esperienza
davvero notevole quanto effimera. La consapevolezza
di ciò è variamente ostacolata da molteplici incomprensioni e difficoltà, da
assuefazioni indotte dall’ingannevole ovvietà che sembra circoscrivere la
dimensione finita delle cose e della vita tutta. Occlusi nel corpo,
dovremo far di tutto per accorgerci del nostro significato energetico, poiché
rimaniamo prevalentemente dimentichi dello splendore che al di qua del limite
evidente rifulge. In questo nostro
momentaneo apparire sospinto dall’onda del divenire, prima che ogni desiderio
torni ad immergersi nella fluttuazione declinante dell’istante, riassorbito
dall’inconoscibile abisso da cui tutto è scaturito, dovremmo cercare di
comprenderne i motivi illusori che sviano la nostra rotta interiore. In sostanza,
scendere nel cuore delle illusioni, significherebbe chiarire maggiormente la
comprensione di sé, ma il conoscere se stessi, costituisce anche l’invito a
districare la matassa di un paradosso irrisolvibile.
La proverbiale
frase gnōthi sautón, costituisce l’enigma maggiore che il dio rivolge all’uomo,
un enigma destinato a rimanere irrisolvibile alla sola ragione.Al conoscere se
stessi, varrebbe la valorizzazione intuitiva dell’inudibile accordo,
dell’armonia profonda, (nascosta) che rilega l’attenzione cosciente al senso
della spaventevole, tremenda, meraviglia latente in ogni istante del giorno e
della notte. E’ l’enigma che
appartiene alla stessa malinconica consapevolezza del dover morire, il cui
valore, inevitabilmente avviato sul declino dei tempi e del proprio tempo,
consisterebbe nella capacità di saper amalgamare l’amarezza della fine assieme
alla luminosa bellezza che la corrente vitale infonde (sebbene in forma
intermittente) alla presenza cosciente.
L’irrimediabilità
della sofferenza, è una consapevolezza che può divenire il crogiuolo
emblematico in cui riversare sapientemente il dolore di ogni possibile lutto,
fuso assieme alla determinazione dell’oltre.
La radianza che
informa la vita ne preavverte la stessa rovina. Ogni germogliazione avviene sul
confine invisibile che separa il rinnovamento dalla catastrofe. A cosa ci esorta la
cosiddetta Sapienza Antica? A non rimanere insensibili della disperata bellezza
che ogni fioritura dischiude. Il suo profumo equivale all’ineffabile gioia che
prelude l’elaborazione di un nettare emblematico. Ogni fioritura rivela una
stupefazione sorretta sullo stelo del dolore e nutrita dal terreno della
disperazione. Tutti i poemi
antichi insegnano proprio questo e niente altro ha davvero significato in
questa vita se non la facoltà di poter esprimere una tale dedizione verso il
mistero dell’esistenza (vera alchimia).
L’uomo non dovrà
smarrirsi tra l’assurdo vuoto che separa l’atomo dall’atomo. L’ordito nascosto
che ci rilega a questa vita, riconduce a un tracciato puramente immaginale,
coinvolto da ogni possibile visione (orrenda quanto luminosa) rimandata alle
infinite lontananze dei molteplici orizzonti allegorici che circoscrivono la
nostra ideazione – essa è propriamente spirituale – in quanto (i capolavori
delle opere antiche testimoniano) è ciò che è più assurdo a determinare la
maggiore forza esprimibile nella creazione materiale. Dire Uomo,
innanzitutto, è significare sogno: è la nota immensità in cui s’annega ogni
pensiero e ogni identità si confonde. (Giovanni Ranella)
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